Osservare le opere di Francis Bacon è facile finché pensi che si tratti solo di mostri e amore per il macabro, scavare più in profondità nelle sue creazioni tuttavia è un’altra storia: significa entrare in contatto con la morte in modo più intimo di quanto si possa pensare, significa sentire davvero le Urla della Chiesa e dell’umanità che brancola nel buio.
Di artisti all’altezza di Bacon è difficile trovarne, ma i suoi figli, i suoi degni successori dell’epoca contemporanea, sono sparsi ovunque per il cosmo, devoti a usare questo Maestro e a dare un seguito alla sua Nuova Figurazione Inglese, fra metamorfosi e cicatrici, sofferenza e trascendenza.
Per approfondire l’arte di Bacon e della sua Prole ecco dei link che potrebbero interessarti:
Ciao a tutti e bentornati sul mio blog, io sono Ary e oggi esploriamo un confronto fra artisti che vede protagonista una natura insolita e che fa emergere somiglianze di rappresentazione fra un famoso artista britannico fortemente influenzato da Francis Bacon e un molto meno famoso artista americano, ma non per questo meno degno di nota. Sto parlando di Damien Hirst e Josh Keyes.
Con questi due artisti il concetto di decontestualizzazione, diversamente dal dadaismo, esalta la natura anziché l’artificio, l’evento disarmante anziché la quotidianità e proprio per questo fonde tutti questi elementi insieme: La natura diventa silenziosamente violenta con Damien Hirst, e fortemente emotiva con Josh Keyes, ma sempre di una profondità contemplativa che s’insabissa in un mare placido e irraggiungibile, fatto di vasche d’acqua marina e formaldeide.
Queste vasche sono per Damien Hirst, uno slancio fisico inarrestabile e imprevisto che si impone allo spettatore, è una provocazione che decanta la necessità umana di mantenere le cose come stanno e per prolungare le sensazioni del presente.
La sua poetica esprime la natura marina come un gioiello, come un raffinato tesoro dei pirati, di quelli che sopravvivono alle loro mappe, mai riesumati, bloccati nel tempo e nello spazio, come cristalli ancestrali, come zanzare illibate nell’ambra, o molluschi che emergono dai coralli come altorilievi minerali.
I colori con lui diventano opere già di per sé preziose e poetiche, perché certi pattern sono sempre quelli, solo che non ce ne rendiamo conto: perché delle conchiglie possono diventare ali di farfalla, e queste ali possono a loro volta trasformarsi in rosoni di cattedrali gotiche: attraverso queste fantasie si vola dalla lucentezza della madreperla alle dita di un cadavere che diventa parte dei fondali marini, ma sempre con una chiara prospettiva sull’esistenza, come un mandala che collega tutto, che elogia il credo e la fede come parti fondamentali della vita.
Anche la decomposizione e la dissezione diventano un modo per continuare a vivere, per alimentare il significato di ricordo e per modificare la percezione del futuro. Per predire cinicamente e lucidamente il giorno in cui ogni cosa sarà sommersa, anche ciò che così intensamente abbiamo cercato di proteggere, tutelare o sottrarre alla luce del sole.
Con questa convinzione il ready-made del dadaismo diventa un teatro e un sipario liquido si apre su di un palcoscenico che riflette allegorie e provocazioni, film d’autore e accenni alla moda.
Ciò che un momento prima echeggia spiritualmente con “La Montagna Sacra” di Jodorowsky e la sua dimensione onirica, in seguito si trasforma nella “Ricerca dell’Oblio” di Damien Hirst, dove non v’è spazio per il divino, ma solo per questa sensazione di profanazione emotiva e fisica.
Ed è così che Il sogno, anche il più intimo e intoccabile con Hirst annega, incontrando la vera forma dell’acqua e della sua dimensione di oscurità, di abisso e allo stesso tempo di trasparenza, della vita che prima nutriva e del gelo che ora infesta ogni memoria.
Questa memoria fa testo anche nelle opere di Josh Keyes, ma è velata, sussurrata fra ghiacciai e statue abbandonate.
Ogni opera è avvolta da un ecosurrealismo bellissimo e struggente, che unisce la polemica di Banksy (fatta di bombole spray e immagini evocative) alla quiete del respiro animale.
Tramite la sua arte digitale Josh Keyes ci mostra l’aspetto metropolitano degli oceani e delle terre emerse, e la visione fisica ed emotivamente cruda delle vasche di Damien Hirst diventa con lui la malinconica solitudine di un mondo troppo piccolo per viverci, dell’incertezza evolutiva, dell’invasione dello spazio vitale.
E’ con la sua arte che possiamo scostare le tende e affacciarci sugli atteggiamenti bizzarri e ribelli che la natura compie a nostra insaputa, tramite l’evoluzione e l’adattamento animale ad un mondo non sempre ideale. Ma per queste creature non esiste il concetto di habitat ideale: habitat è solo vita e sopravvivenza.
Come nel film “Annientamento” ci ritroviamo testimoni di una madre natura confusa, di un miscuglio di creature e piante che dà vita a nuovi esemplari dal corredo genetico impossibile.
Questi animali sembrano aver perfino assorbito dai teschi degli esseri umani la rabbia repressa per via delle convenzioni, l’inciviltà del vivere imbottigliati nel traffico, i crimini di un’esistenza troppo veloce e frenetica.
“L’uomo è un animale sociale” diceva Aristotele, ma in questi quadri ogni animale è un animale sociale in quanto ha assimilato la nostra concezione di comunità: di creature stipate e costrette all’entrare in contatto con le diversità fra gli uni e gli altri.
qualcuno verrà divorato, altri si estingueranno, e altri ancora migreranno, esiliandosi fuori dal piedistallo vivibile, mentre gli oceani inghiottiranno tutto nel loro blu incontaminato.
Se questo confronto vi è piaciuto complimenti a Damien Hirst e Josh Keyes e *PATPAT* a me! E se davvero vi è piaciuto, condividetelo sui social e mostratelo ai vostri amici!
Se volete approfondire la conoscenza di questi due artisti potete acquistare QUI il libro sull’arte raccontata da Damien Hirst, QUI il libro “Un’estetica del disgusto: Damien Hirst” e visitare QUI il sito di Josh Keyes.
Fatemi sapere in un commento cosa pensate di questi due fantastici artisti, li conoscevate entrambi? Quale rientra di più nei vostri gusti e soprattutto fatemi sapere cosa comunicano a voi, sono molto curiosa.
Ci vediamo al prossimo artista!
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Scrivimi a derizzo.arianna@gmail.com con i dettagli della tua richiesta. Ti contatterò al più presto.
Ciao a tutti, ragazzi, bentornati sul mio blog e se invece siete nuovi, benvenuti!
Io sono Ary e quello di oggi finalmente è un articolo (e script di QUESTO mio video) che apre una rubrica sul cinema, e in particolare sui miei registi preferiti in ambito estetico e artistico: e con chi cominciare se non con colui che ha dato vita alle risate dei Monty Python e che oggi dopo 25 anni ci ha portato il Don Chisciotte sullo schermo?
Sì, sto parlando di Terry Gilliam!
Un Incantatore che veicola lo sguardo, un Visionario dell’Etereo Decadentismo dell’Immaginario che inserisce nella pomposità e nella permalosità delle epoche sfarzose l’elemento di disturbo, ovvero soggetti grezzi, rustici, villani e volgari che danno adito alla vergogna e la esaltano fino al ridicolo.
Le immagini sconsacranti sono ciò che ci fa ridere dell’Arte di Gilliam, poiché ci dà la possibilità di mandare a quel paese i tabù che ogni giorno ci vengono rinfacciati.
Gilliam questi tabù li schiaccia con un piede gigante.
Allo stesso modo la bellezza con questo regista non sta più sulla superficie della pelle, ma si riconosce nell’estetica non convenzionale, sghemba, che si esprime con figure verso le quali siamo attirati non per i lineamenti piacevoli, ma per la scintilla di follia che sta sotto, per l’eccessiva umanità che sta in quegli occhi.
Ogni personaggio che ci presenta Gilliam è vissuto, il suo apice è passato, e ora sta trovando il suo posto in un mondo che l’ha dimenticato.
Anche le figure giovani sono ormai disilluse, già cresciute, e si connettono alla nicchia di chi permane invisibile alla società, agli affetti di nanismo, un chiaro riferimento a Jodorowsky e ai gitani, che Gilliam riprende come protagonisti, come i sopravvissuti della modernità, come una tradizione che seppur morente, resiste alla novità, ancorando le radici in un carro mobile.
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Quella di Gilliam è un’estetica sporcata dalla sabbia e dalla terra, dai guizzi di colore che spiccano all’occhio dello spettatore mentre le scene si riempiono di una strana sensazione morbosa, unita ad una scenografia succulenta.
Grazie a questi elementi Gilliam gioca con lo spettatore, mischiando vari contrasti, per vedere chi guarda restare perplesso di fronte alle proprie emozioni, di fronte alla convinzione che non tutto ciò che si prova ha una spiegazione razionale o convenzionale.
E questo è ciò che accade ne “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, che ti spiazza e ti fa ridere eccessivamente, mentre al contempo ti imbarazza senza motivo e ti meraviglia con tutti i rimandi alle sue opere precedenti: il Vestito rosso di Valentina e le Carovane di “Parnassus: L’uomo che voleva ingannare il Diavolo”, il Cavaliere Rosso de “La Leggenda del Re Pescatore”, l’improvvisa ironia e rottura della quarta parete dei Monty Python
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e la rottura della quinta, sesta parete, nel metterci dentro prima la rottura del muro fra due mezzi, quello della letteratura e della cinematografia, che diventano una cosa sola, e poi della propria realtà in quanto regista affannato alla ricerca dell’ispirazione: una ricerca che si compie dopo ben 25 anni di riprese e con un bagaglio di sfinitezza.
Allo stesso modo anche in “Parnassus: L’uomo che voleva ingannare il Diavolo” la realtà dietro al film si fa palese aggiungendo ben tre attori a sostituire d’un tratto il ruolo di Heath Ledger.
la presenza di questi tre attori ben più famosi di Heath Ledger fanno paradossalmente sentire la sua assenza, un’assenza che è un elefante nella stanza poiché fa svanire la loro fama dietro l’aura di ricordo che Heath si è creato, esponendo il vuoto e la rottura che la sua morte ha portato.
Il bello della produzione di Gilliam è proprio che non tratta la realtà e l’immaginazione come mondi distinti, ma come un’intersecazione, come una potenzialità per le sue visioni e non come qualcosa da dimenticare per far spazio a fantasie in cui rifugiarsi.
Come nelle illustrazioni di Jacek Yerka, troviamo mondi che si connettono con il passato, o meglio realtà che divengono ciò che sono solo in virtù di ciò che hanno subito e delle trasformazioni dell’umanità che si riflettono sull’ambiente:
Sporcizia e fogli volatili ovunque, Dadaismo, Tecnologia, per arrivare poi alle sue incredibili animazioni che ci interrompono il flusso di pensieri e ce lo risucchiano in estasi estranianti: narrazioni grottesche e bizzarre di pochi secondi scattosi e frenetici, che con la stop-motion e con il loro trasandato look da collage risultano ancora più esilaranti e sciocche, e dunque geniali, ispirate dalle ricomposizioni di surrealisti come Max Ernst, dalle animazioni di Karel Zeman e dalla morbidezza e fluidità insita nei quadri di Dalì.
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In ogni sua animazione, cortometraggio o pellicola, Gilliam ci inonda con il profumo della Patafisica allo stato più grezzo, ma anche con una profondità devastante che si cela in bella mostra.
Si parte dalla costante di facce giganti delle figure boschiane,
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per passare alle citazioni artistiche reinterpretate come “La Nascita di Venere” di Botticelli.
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per poi arrivare ai protagonisti delle sue storie: viandanti fisici o mentali alla ricerca di un appagamento, tutti con uno scopo insito dentro di loro, eppure irrisolto e spiegazzato, come un foglietto accartocciato abbandonato in un cassetto, su cui sta scritto il senso dell’Universo.
Forse quel foglietto è proprio uno dei fogli volanti e delle cartacce che riempiono le inquadrature dei film di Gilliam, che viene calpestato come tutta la spazzatura normale.
Nel notare tutti questi aspetti il concetto di collage emerge spontaneo, proprio come nelle animazioni, e ci fa sentire lo stacco fra una ripresa e l’altra volutamente, rivelando che sono esse stesse un insieme caotico di collage, di fantasie insolite e difficili di natura che coronano perfettamente le inquadrature, dalla penombra giallastra all’atmosfera bluastra degli ambienti futuristici, ai volti deformati oppure esaltati dalla terra di siena bruciata, che vogliono farti domandare se sia un cerone palesemente teatrale oppure l’euforia del personaggio che prende posto sulla pelle e si mostra in tutta la sua trasparenza.
Particolarmente interessante e quasi un suo stampo di fabbrica è la sua scelta di applicare alla scenografia delle piastrelle a scacchi, per velatamente ricordarti che si sta giocando al gioco preferito del Diavolo poiché ogni film di Gilliam è una partita a scacchi: si subodora come a volerti ricordare che è tutto un gioco sì, ma un gioco che può avere delle conseguenze devastanti per i soggetti in questione: una partita che provoca e attira consapevolmente il demonio, che rivela l’azzardo e la dipendenza dal rischio per ritrovarsi faccia a faccia con qualcosa di maligno da scacciare, per scendere a patti, per toccare il fondo fino a vendere l’anima, per poi risalire strategicamente, riuscire a salvarsi e perché no, fare uno scacco matto.
La catastrofe nei film di Gilliam diventa un’emozione, quella sensazione di quando ti senti cadere dalle nuvole quando credevi che tutto stesse andando bene: è una tragedia che ti legge, è solo una storia sullo schermo.
Eppure ti pare la fine del mondo.
Poi tutto si risolleva in un modo o nell’altro, per olistico intervento, e tu torni a ridere pensando a quanto sei stato sciocco e drammatico nel tuo giudizio.
Ma dopotutto non è esattamente questo che accade in ogni nostra vita?
Grazie per aver letto il mio articolo, ci tenevo a scriverlo specialmente dopo aver visto “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, che vi consiglio davvero davvero caldamente di guardare in quanto è un film letterario nel vero senso della parola, e il finale taglia la tela, ma non solo quella del cinema, anche quella del libro del Don Chisciotte e quella di tutta l’arte.
Il film poi è piaciuto così tanto a me e Rick che abbiamo anche fatto un video recensione sul suo canale, potete recuperarlo QUI. QUI potete acquistare un libro per approfondire l’Arte di Terry Gilliam e inoltre vi consiglio di andare a guardarvi il videotributo del canale di Jeremy Mullins al Cinema di Terry Gilliam!
Fatemi sapere sotto al MIO VIDEO qual è il vostro film preferito di Terry Gilliam, il mio è sicuramente “Parnassus: L’uomo che voleva ingannare il Diavolo”!
Questo era il primo articolo sull’Arte del cinema e noi ci vediamo al prossimo regista!
“Le generazioni future leggeranno degli animali del bosco come dei popoli della Bibbia.” (Arto Seppälä) “La Natura: rossa di zanne e d’artigli.” (Alfred Tennison) “Mi lascio in eredità alla terra, per rinascere nell’erba che amo, se ancora mi vuoi, cercami sotto la suola delle tue scarpe” (Walt Whitman)
“Ciao a tutti e bentornati sul mio blog!
Io sono Ary, e in questa mia prima rubrica voglio esplorare con voi degli artisti poco conosciuti che trovo davvero fantastici!
L’artista di cui vi voglio parlare oggi è una portavoce della natura, una evocatrice di totem ancestrali, una dissezionatrice delle viscere della terra e della morte stessa: sto parlando di Lauren Marx.
Nei suoi quadri, Lauren Marx restituisce gli animali alla brutalità del mondo dopo averli strappati alle pagine delle favole.
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Sono creature stanche da millenni: stanche di portarsi sulle spalle una morale da dover conferire, stanche dell’uomo e di dover parlare con lui: si sono scrollate di dosso la magia, spogliate di quella falsa pelliccia che le imprigionava nella sottomissione: sono affamate, sono bestie.
Bestie ormai non più vive, ma nemmeno morte, che crescono e si plasmano da secoli in ossa, corna, peli, piume e viscere.
Sono creature ancestrali, antiche come il tempo stesso, forgiate dalla fame e dall’odore del sangue.
Sono le creature degli stemmi del Trono di Spade, unite dalla ferocia e dall’istinto di sopravvivenza. Non c’è paura che il lupo non sappia fiutare, non c’è carne che il leone non voglia sbranare.
Nei quadri di Lauren Marx tutti sono preda della natura: la brutalità della lotta si fonde con la fragilità e la caducità della vita, anche quella del più forte e selvaggio animale.
Nel cerchio della vita il sacro si unisce al profano, e così ogni osso, occhio, muscolo, artiglio appassisce, marcisce, si decompone e infine rinasce sotto forma di yin e yang, di nuovi simbolismi fatti di carne.
Con una pennellata, Lauren Marx ci trascina in un viaggio pagano all’interno delle viscere di bestie sacrificali che danzano contorte verso la morte.
I colori scuri, cupi e rupestri come quelli degli antri di una caverna o delle foglie umide trasportate dai ruscelli del bosco risvegliano l’unione di mito e realtà.
Fra le figure viscerali e esanimi delle bestie, il cielo si riflette ancora nei loro occhi e la terra continua a girare.
La vita continuerà, trasportando la loro anima altrove, dove potranno vivere e cacciare ancora.”
Se volete approfondire L’arte di Lauren Marx potete seguire il suo blog laurenmarx.com e acquistare delle sue stampe su society6.
Ricordatevi di condividere l’articolo o il video se vi è piaciuto e se volete sentirmi parlare di un particolare artista scrivetemelo in un commento!
Perché ho scelto di dipingere il Tardigrado? Perché indossarlo?
Perché è la creatura più BADASS del pianeta: se ne fotte di tutti e di tutto, perfino della morte.
(nella foto in alto a destra: riccardodalferro.com) (per ordinare la tua t-shirt o per ulteriori informazioni scrivimi all’e-mail derizzo.arianna@gmail.com)