“Moloch che è penetrato presto nella mia anima!
Moloch nel quale sono coscienza senza corpo!
Moloch che mi ha terrorizzato via dalla mia estasi naturale!
Moloch che io abbandono!
Svegliati Moloch! Luce che urla dal cielo!”
“Ciao a tutti ragazzi e bentornati sul mio blog!
Dopo aver parlato dei muscoli e dell’individualità dell’arte di Egon Schiele, oggi parliamo di esoscheletri e di masse sociali mettendo a confronto ben due artisti poco conosciuti.
Sono due artisti molto differenti come personalità e insieme si intrecciano a rappresentare gli aspetti più contorti della condizione umana.
Uno di questi è il mio artista preferito fra i meno conosciuti, nato a Dalian in Cina nel 1965, un artista dall’estetica raffinata, ma controversa; l’altro invece è un artista polacco nato nel 1929 che non rientra particolarmente nelle mie corde, ma mi avete chiesto in così tanti di parlarne che non avrei mai potuto dire di no.
Ed ecco dunque il confronto fra Xue Jiye e Zdislaw Beksinski.
Dai formicai di uomini di Xue Jiye trapela il sudore della fatica e del lavoro degli uomini. Masse che man mano che sollevano, martellano e costruiscono diventano sempre più insignificanti rispetto alle proprie creazioni, perdendo l’occhio oltre il cielo, mentre le torri di Babele crescono e crescono.
Le facce degli uomini di Xue Jiye sono tutte uguali, tutte annebbiate dalla loro nuvola di taylorismo scellerato.
Muscoli dalla potenza insostenibile e menti che non sentono più niente se non un irrefrenabile istinto di porre fine a tutto nei momenti di pausa, momenti in cui i lembi di pelle implorano di essere strappati alla schiavitù, a questa vita da robot.
Poi, quando la costruzione lo richiede si torna al lavoro, e ci si ricompone per rientrare nella massa, per ritornare ingranaggio.
Si ammucchiano, sgomitano per starci tutti, ma se un uomo muore non importa, verrà presto sostituito, perché la loro catena di montaggio ha un fine più alto.
Costruire, sempre e comunque costruire.
Scavare e abbattere finché tutto non li schiaccia per diventare, poco a poco, parte stessa dei muri di terra rossa.
Passano gli anni, i secoli, i millenni.
Ci ritroviamo ora fra antri angusti e palazzi che si ergono su fondamenta fatte di ossa e sangue: ci ritroviamo catapultati da Beksinski in una leggenda dell’orrore, sperduta nella sabbia.
Ciò che lui ci mostra è il mondo di una mente senza speranza: la sua.
Una mente che è rimasta in coma dopo un serio incidente, che vomita nella pittura l’inferno che ha vissuto.
Colori di gelo, come la sua fredda campagna polacca, di vene e di luce aliena.
Ciò che ci mostra è la società di Xue Jiye arrivata al declino. Una società dove i palazzi sono fatti di quegli stessi uomini formica i quali, dopo tutti questi millenni, sostengono ancora le strutture che stavano costruendo, perfino dopo la morte.
I volti sparsi nel nulla sono mutilati, senza respiro.
Beksinski ci mostra la desolazione di ciò che non è più un uomo. Un uomo che si è annullato così tanto, che nel momento dell’apocalisse si ritrova a regredire a una forma ancora più ancestrale delle scimmie, una forma più simile a uno xenomorfo che a una figura terrestre.
Sono guardiani del nulla, reduci da un mondo fondato sulla massa, ben lontani dal ritrovare una qualche individualità.
L’horror vacui è un elemento dominante nelle sue immagini che rinfaccia a chi respira ancora la sublime colpa di questo impero di edifici.
La fame, la siccità, e la mente sprecata di quelli che erano uomini aleggiano come delle anime in pena alla ricerca di qualcuno che le salvi.
Beksinski ci mostra l’alba di un mondo senza luce, dettato dagli ultimi spiragli dell’elettricità, per entrare in una nuova era: l’era della fine della vita sulla Terra.
Nell’osservare i formicai ancora vivi di Xue Jiye, e poi le ragnatele di scheletri di Beksinski, ci domandiamo cosa abbia spinto tanto in là il mondo o meglio
“Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha spaccato il cranio e ha mangiato i loro cervelli e la loro immaginazione?”
La risposta è nell'”Urlo” di Allen Ginsberg:
“Moloch nel quale sediamo solitari, Il Moloch solitudine, sporco e bruttezza
Moloch il grande giudicatore di uomini!
Moloch il carcere incomprensibile! Moloch prigione senz’anima ossa in croce e Congresso di dolori!
Moloch i cui edifici sono sentenze!
Moloch la vasta pietra della guerra!
Moloch.”
Un luogo dove ci si nutre di sofferenza, Dove viene evocato il decadimento del corpo, la fragilità della carne e al contempo, nonostante tutto, la continua lotta a non rimanere schiacciati dalle proprie creazioni, la lotta alla sopravvivenza.
Se volete approfondire l’arte di questi due pittori, vi lascio il link per saperne di più su Xue Jiye, il link per acquistare il libro sulle opere di Beksinski e il link per acquistare il libro “Urlo e Kaddish” di Allen Ginsberg!
Ricordatevi di condividere questo articolo se vi è piaciuto e se volete sentirmi parlare di uno o più pittori in particolare scrivetemelo nei commenti.
Ci vediamo al prossimo artista!
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