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Aryzona si espande su Spreadshirt! ⇛ IL MIO SHOP
Proprio così: l’attività che sto portando avanti su questo blog e sul mio canale youtube, grazie a design dipinti a mano e video sull’arte e sul cinema, ora usufruisce pure di uno SHOP VIRTUALE su Spreadshirt, dove poter acquistare con facilità e immediatezza magliette, tazze, STAMPE e cover con i MIEI DESIGN!
E ho pure un’altra buona notizia: dato che queste sono le due settimane di inaugurazione dello Shop c’è pure il 15% di SCONTO su TUTTI I PRODOTTI (chiamiamoli “Saldi di Halloween”).
Ma cosa sto qui a scrivere? C’è già questo video dove ve lo spiego con un bel raffreddore!
Allora, vi ho convinti a fare un giretto nel mio negozietto? E se l’avete già fatto me lo merito un *patpat*?? Ah e cosa importante: fatemi sapere con un commento se avete dei suggerimenti su quali soggetti inserire nei prossimi design, che siano essi personaggi di letteratura o cultura geek, animali, o altro!
(Lo so, lo so, non vendono ancora i biscottini su Spreadshirt, ma vedrò di convincere lo staff di questa aggiunta strategica…
“Passa per il mio Shop… Abbiamo i biscottini.”)
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Osservare le opere di Francis Bacon è facile finché pensi che si tratti solo di mostri e amore per il macabro, scavare più in profondità nelle sue creazioni tuttavia è un’altra storia: significa entrare in contatto con la morte in modo più intimo di quanto si possa pensare, significa sentire davvero le Urla della Chiesa e dell’umanità che brancola nel buio.
Di artisti all’altezza di Bacon è difficile trovarne, ma i suoi figli, i suoi degni successori dell’epoca contemporanea, sono sparsi ovunque per il cosmo, devoti a usare questo Maestro e a dare un seguito alla sua Nuova Figurazione Inglese, fra metamorfosi e cicatrici, sofferenza e trascendenza.
Per approfondire l’arte di Bacon e della sua Prole ecco dei link che potrebbero interessarti:
“Bacon – la violenza di una rosa”: https://amzn.to/2myaz2r
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“Il Mostro”: il PRIMO NUMERO della rivista di Filosofarsogood 2019: http://bit.ly/fsfsg_set19
Antony Micallef: https://www.instagram.com/antonymical…
Patt Yingcharoen: https://www.instagram.com/patt159/
Joey Unlee: https://www.instagram.com/joeyunlee/
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Il libro con le creazioni di HR Giger per “Alien”: https://amzn.to/2ATk68d
Non ho Patreon, ma se vuoi contribuire al mio progetto di divulgazione sul canale puoi regalarmi un libro dalla mia Wishlist artistica di Amazon:
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Con tutto quello che accade nello spazio ci si aspetta di vedere qualsiasi cosa fra le stelle e i meteoriti… Tranne una lattina caduta nell’occhio della Luna!
Che cosa ci fa una zuppa di pomodoro in un cratere inospitale? E’ ovvio: vuole essere la prima forma d’arte a conquistare il cuore di un grigio corpo extraterrestre – di certo è stato un po’ azzardato come primo contatto… Ma in fondo sappiamo che George Melies apprezza l’invadenza colorata!
“un piccolo passo per una lattina, un grande passo per la Pop Art!”
Dipingere questa T-shirt mi ha divertito tantissimo e con l’occasione ho potuto rispondere a delle curiosità che spesso mi chiedete riguardo al processo della pittura!
Ecco qui IL VIDEO IN CUI CREO LA MAGLIETTA:
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Ciao a tutti e bentornati sul mio blog, io sono Ary e oggi esploriamo un confronto fra artisti che vede protagonista una natura insolita e che fa emergere somiglianze di rappresentazione fra un famoso artista britannico fortemente influenzato da Francis Bacon e un molto meno famoso artista americano, ma non per questo meno degno di nota. Sto parlando di Damien Hirst e Josh Keyes.
Con questi due artisti il concetto di decontestualizzazione, diversamente dal dadaismo, esalta la natura anziché l’artificio, l’evento disarmante anziché la quotidianità e proprio per questo fonde tutti questi elementi insieme: La natura diventa silenziosamente violenta con Damien Hirst, e fortemente emotiva con Josh Keyes, ma sempre di una profondità contemplativa che s’insabissa in un mare placido e irraggiungibile, fatto di vasche d’acqua marina e formaldeide.
Queste vasche sono per Damien Hirst, uno slancio fisico inarrestabile e imprevisto che si impone allo spettatore, è una provocazione che decanta la necessità umana di mantenere le cose come stanno e per prolungare le sensazioni del presente.
La sua poetica esprime la natura marina come un gioiello, come un raffinato tesoro dei pirati, di quelli che sopravvivono alle loro mappe, mai riesumati, bloccati nel tempo e nello spazio, come cristalli ancestrali, come zanzare illibate nell’ambra, o molluschi che emergono dai coralli come altorilievi minerali.
I colori con lui diventano opere già di per sé preziose e poetiche, perché certi pattern sono sempre quelli, solo che non ce ne rendiamo conto: perché delle conchiglie possono diventare ali di farfalla, e queste ali possono a loro volta trasformarsi in rosoni di cattedrali gotiche: attraverso queste fantasie si vola dalla lucentezza della madreperla alle dita di un cadavere che diventa parte dei fondali marini, ma sempre con una chiara prospettiva sull’esistenza, come un mandala che collega tutto, che elogia il credo e la fede come parti fondamentali della vita.
Anche la decomposizione e la dissezione diventano un modo per continuare a vivere, per alimentare il significato di ricordo e per modificare la percezione del futuro. Per predire cinicamente e lucidamente il giorno in cui ogni cosa sarà sommersa, anche ciò che così intensamente abbiamo cercato di proteggere, tutelare o sottrarre alla luce del sole.
Con questa convinzione il ready-made del dadaismo diventa un teatro e un sipario liquido si apre su di un palcoscenico che riflette allegorie e provocazioni, film d’autore e accenni alla moda.
Ciò che un momento prima echeggia spiritualmente con “La Montagna Sacra” di Jodorowsky e la sua dimensione onirica, in seguito si trasforma nella “Ricerca dell’Oblio” di Damien Hirst, dove non v’è spazio per il divino, ma solo per questa sensazione di profanazione emotiva e fisica.
Ed è così che Il sogno, anche il più intimo e intoccabile con Hirst annega, incontrando la vera forma dell’acqua e della sua dimensione di oscurità, di abisso e allo stesso tempo di trasparenza, della vita che prima nutriva e del gelo che ora infesta ogni memoria.
Questa memoria fa testo anche nelle opere di Josh Keyes, ma è velata, sussurrata fra ghiacciai e statue abbandonate.
Ogni opera è avvolta da un ecosurrealismo bellissimo e struggente, che unisce la polemica di Banksy (fatta di bombole spray e immagini evocative) alla quiete del respiro animale.
Tramite la sua arte digitale Josh Keyes ci mostra l’aspetto metropolitano degli oceani e delle terre emerse, e la visione fisica ed emotivamente cruda delle vasche di Damien Hirst diventa con lui la malinconica solitudine di un mondo troppo piccolo per viverci, dell’incertezza evolutiva, dell’invasione dello spazio vitale.
E’ con la sua arte che possiamo scostare le tende e affacciarci sugli atteggiamenti bizzarri e ribelli che la natura compie a nostra insaputa, tramite l’evoluzione e l’adattamento animale ad un mondo non sempre ideale. Ma per queste creature non esiste il concetto di habitat ideale: habitat è solo vita e sopravvivenza.
Come nel film “Annientamento” ci ritroviamo testimoni di una madre natura confusa, di un miscuglio di creature e piante che dà vita a nuovi esemplari dal corredo genetico impossibile.
Questi animali sembrano aver perfino assorbito dai teschi degli esseri umani la rabbia repressa per via delle convenzioni, l’inciviltà del vivere imbottigliati nel traffico, i crimini di un’esistenza troppo veloce e frenetica.
“L’uomo è un animale sociale” diceva Aristotele, ma in questi quadri ogni animale è un animale sociale in quanto ha assimilato la nostra concezione di comunità: di creature stipate e costrette all’entrare in contatto con le diversità fra gli uni e gli altri.
qualcuno verrà divorato, altri si estingueranno, e altri ancora migreranno, esiliandosi fuori dal piedistallo vivibile, mentre gli oceani inghiottiranno tutto nel loro blu incontaminato.
Se questo confronto vi è piaciuto complimenti a Damien Hirst e Josh Keyes e *PATPAT* a me! E se davvero vi è piaciuto, condividetelo sui social e mostratelo ai vostri amici!
Se volete approfondire la conoscenza di questi due artisti potete acquistare QUI il libro sull’arte raccontata da Damien Hirst, QUI il libro “Un’estetica del disgusto: Damien Hirst” e visitare QUI il sito di Josh Keyes.
Fatemi sapere in un commento cosa pensate di questi due fantastici artisti, li conoscevate entrambi? Quale rientra di più nei vostri gusti e soprattutto fatemi sapere cosa comunicano a voi, sono molto curiosa.
Ci vediamo al prossimo artista!
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Scrivimi a derizzo.arianna@gmail.com con i dettagli della tua richiesta. Ti contatterò al più presto.
Ciao a tutti ragazzi e bentornati sul mio blog!
Oggi vi illustrerò una corrente che non è molto conosciuta, ma che vanta di includere alcuni degli artisti più suggestivi e dei temi più oscuri e tabù che si possano immaginare: sto parlando della corrente dell’Ero Guro.
Sviluppatosi come movimento artistico negli anni ’20, la peculiarità che rende l’Ero Guro una delle correnti più affascinanti è la combinazione di horror, erotismo e grottesco in un unico mostro che si infila sottopelle e che in silenzio scatena la propria natura su illustrazioni e quadri di sfondo orientale.
Ero Guro infatti deriva dal giapponese “ero guro nansensu”, ovvero erotico e grottesco nonsense: una costante molto amata è la malformazione estrema e surreale, unita ad una vena gore e al contrasto con protagoniste delicate e maliziose, un cibo succulento per ogni creatura degli abissi.
Molto importante infatti è la parte erotica e morbosa della corrente che ha origine dalle stampe “Shunga” del periodo Edo, ritraenti la vita del Kotaishi (principe ereditario che si dava ai piaceri erotici nel suo Palazzo di Primavera).
L’Ero Guro così non si limita a mostrare il lato sensuale dell’erotismo classico, ma ci svela anche il lato più scabroso o allucinante, quello della decadenza sessuale, della corruzione, e soprattutto della violenza, un tema che in questo caso si ispira soprattutto al confine fra il vero e la finzione tramite i punti di contatto con avvenimenti reali.
In quanto movimento chiaramente controverso e inaccettabile venne soppresso durante la seconda guerra mondiale, per poi tuttavia riapparire più forte di prima nella cultura giapponese: proprio come un mostro o un demone, che sconfitto e relegato nel fondo dell’abisso riemerge dall’oscurità con nuove oscenità da mostrare al mondo.
Queste nuove oscenità trasmettono la repulsione ed evocano onomatopee viscide e raccapriccianti attraverso i co-protagonisti delle opere, dai rettili dal sangue freddo, agli aracnidi pelosi e velenosi, passando per le reinterpretazioni delle memetiche violenze tentacolari, che compaiono per la prima volta proprio dalle stampe Shunga e che oggi costituiscono la massima moda della cultura hentai, fino ad arrivare a mollicce trasformazioni kafkiane in millepiedi e bruchi, come nell’omonima graphic novel “Il Bruco” di Suehiro Maruo, uno dei luogotenenti di questa corrente artistica.
Suehiro Maruo in ogni sua rappresentazione nasconde in bella vista elementi portanti del folclore giapponese come le daruma doll, le statuine votive portafortuna che vengono sconsacrate dal sangue e che assumono d’un tratto l’aspetto di un ricordo infestante, o gli sporadici elementi che ricordano mostri a noi ben comuni, che si mischiano e diventano parte delle ambientazioni da trincea o militari, attribuendo il significato di violenza presente nell’Ero Guro all’elemento della guerra e dell’orrore.
Suehiro Maruo dunque ci comunica il massacro attraverso il concetto di memoria storica e il protagonista delle sue opere non è tanto la mutilazione fisica quanto quella psicologica, per trasmettere l’elemento dello stress post traumatico.
Le sue rappresentazioni infatti, seppur cruente, paiono spesso velate da uno strato di rappresentazione cinematografica, come se ci fosse un meccanismo di difesa che ci impedisce di guardare oltre per rimanere indenni dall’orrore, come per razionalizzare, stipando tutto ciò che di terribile ci è capitato dietro una pellicola proiettata, dietro a ricordi dei spensierati tempi andati, nei quali la violenza era solo un brutto sogno o una finzione, che si dipingeva di luci e contrasti alla Dario Argento fondendo insieme l’espressionismo e i raggi di una bandiera ormai spenta;
Nonostante ciò però l’inquietudine non se ne vuole andare, sbuca nei posti e nei momenti più imprevisti, e seppure tentiamo di ignorarla, essa tornerà sempre, perché è parte di noi, è il trauma sotto la nostra pelle che ci porteremo dietro per tutta la vita negli abissi del nostro cervello.
Questa pellicola, questo Velo di Maya color miele che Suehiro Maruo ci offre come dolce protezione dagli orrori del mondo, Junji Ito invece ce lo strappa dagli occhi.
Lui gioca col viscido, con l’inaspettato e con la paura come un elemento costante della vita umana, che non è mai irrazionale o infondata. Con lui tutto è possibile: il mondo reale è il mondo degli spiriti mitologici giapponesi, degli yokai come lo Hyakume dai 100 occhi, che incarna l’elemento di disturbo e di frenesia incessante. Ciò che Junji Ito ama più di tutto infatti è portare l’elemento del terrificante letteralmente all’ennesima potenza, moltiplicando arti, occhi, creature, bocche e brividi e riempiendo di oscurità ogni angolo delle illustrazioni per non dare spazio all’umanità, per stroncarla nelle sue emozioni e annichilirla fino a lasciarle solo la possibilità di implodere in un buco nero.
La mente umana nell’immaginario di Junji Ito prende la forma della realtà che la circonda, di un maelstrom, un pozzo oscuro senza fondo, che ci fa cadere sempre più giù nel gorgo della follia.
Al contrario di Suehiro Maruo, però, per Junji Ito l’insanità mentale non è qualcosa da temere, ma da incoraggiare, in quanto è la chiave per una visione più approfondita delle cose e delle loro potenzialità, per farci far pace con il fatto che prima o poi anche noi diverremo degli yokai, dei mostri, fino a tornare alla terra dalla quale siamo venuti, in un ciclo di morte, putrefazione e rinascita.
Per Junji Ito la paura è un’ossessione, che si riflette in una pupilla serrata e che vaga nel bianco e nero delle vignette in cui è intrappolata, cercando un colore che non c’è, impigliata nella desolazione di ombre e luci fioche.
Altro luogotenente di questa corrente è Shintaro Kago, che dal canto suo vive in un mondo a parte, con uno stile ben definito per giocare sul contrasto fra immagini assurde e raccapriccianti e il lato infantile dei colori a matita.
Shintaro Kago proprio come l’Enigmista di “Saw” gioca con i soggetti delle sue opere, relegati ad una prigione che costringe al divertimento, una giostra dell’orrore che confina la mente e il corpo nelle figure di bambini e bambine in balia degli eventi, a sottolineare l’innocenza e l’inermità di fronte allo scempio a cui sono destinati.
L’horror di Shintaro Kago si veste da tendenza, da harajuku girl, da bambina lolita, esponendo l’influenza delle mode giapponesi come parassiti che si insinuano nei cervelli e trasformano la struttura umana di chi apparentemente è più fragile e candido. Il suo è un mondo di caramelle e puzzle di carne, arcobaleni e pericolosi automatismi.
Takato Yamamoto infine rompe le aspettative e rovescia la medaglia rappresentando l’horror e il grottesco non come qualcosa da cui essere disgustati, ma anzi come raffinatezza elitaria, come una prelibatezza da galateo definita da un’estetica delicata e perfino poetica, dai colori tenui e un tratto fino ed elegante.
L’Ero Guro con lui diviene una favola dei fratelli Grimm, una mitologia che si fonde fra l’oriente e l’occidente, nella quale vediamo un confine sottilissimo fra mostri e santi, e nel quale gli abomini si mostrano come un’arte di pochi eletti, concezione paradossalmente ancor più insopportabile delle esplicite opere degli artisti precedenti.
Ognuno di questi artisti porta sul palmo della mano gli occhi, gli organi genitali, il cranio, le viscere, ovvero tutti quei ventri molli che possono potenzialmente covare una progenie del diavolo, ed è proprio questo che affascina e confonde dell’Ero Guro.
Mentre nell’horror occidentale infatti è predominante il terrore di ciò che sta oltre la morte, fra fantasmi che ci perseguitano, scheletri e creature sovrannaturali esterne a noi, con l’Ero Guro il mostro che ci infesta è dentro di noi, è un tarlo che ci mangia da dentro, è una malformazione che ci fa perdere il controllo, è un corpo che ci spaventa poiché il male non è altri che l’uomo stesso!
Spero che l’articolo vi sia piaciuto e scrivetemi in un commento se vi ho fatto venire i brividi!
Se poi volete approfondire ancora l’Ero guro vi lascio i link ai libri degli artisti:
QUI la “Kagopedia” di Shintaro Kago;
QUI “Il Bruco” di Suehiro Maruo;
QUI “Brivido: Junji Ito”;
inoltre se volete sentire ulteriormente la pelle d’oca vi consiglio di andare QUI a recuperarvi il mio articolo sul Confronto fra Xue Jiye e Beksinski.
E se non mi seguite ancora su Youtube, cliccate QUI e iscrivetevi per nuovi video sull’arte ogni settimana!
Ci vediamo al prossimo artista!
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“Moloch che è penetrato presto nella mia anima!
Moloch nel quale sono coscienza senza corpo!
Moloch che mi ha terrorizzato via dalla mia estasi naturale!
Moloch che io abbandono!
Svegliati Moloch! Luce che urla dal cielo!”
“Ciao a tutti ragazzi e bentornati sul mio blog!
Dopo aver parlato dei muscoli e dell’individualità dell’arte di Egon Schiele, oggi parliamo di esoscheletri e di masse sociali mettendo a confronto ben due artisti poco conosciuti.
Sono due artisti molto differenti come personalità e insieme si intrecciano a rappresentare gli aspetti più contorti della condizione umana.
Uno di questi è il mio artista preferito fra i meno conosciuti, nato a Dalian in Cina nel 1965, un artista dall’estetica raffinata, ma controversa; l’altro invece è un artista polacco nato nel 1929 che non rientra particolarmente nelle mie corde, ma mi avete chiesto in così tanti di parlarne che non avrei mai potuto dire di no.
Ed ecco dunque il confronto fra Xue Jiye e Zdislaw Beksinski.
Dai formicai di uomini di Xue Jiye trapela il sudore della fatica e del lavoro degli uomini. Masse che man mano che sollevano, martellano e costruiscono diventano sempre più insignificanti rispetto alle proprie creazioni, perdendo l’occhio oltre il cielo, mentre le torri di Babele crescono e crescono.
Le facce degli uomini di Xue Jiye sono tutte uguali, tutte annebbiate dalla loro nuvola di taylorismo scellerato.
Muscoli dalla potenza insostenibile e menti che non sentono più niente se non un irrefrenabile istinto di porre fine a tutto nei momenti di pausa, momenti in cui i lembi di pelle implorano di essere strappati alla schiavitù, a questa vita da robot.
Poi, quando la costruzione lo richiede si torna al lavoro, e ci si ricompone per rientrare nella massa, per ritornare ingranaggio.
Si ammucchiano, sgomitano per starci tutti, ma se un uomo muore non importa, verrà presto sostituito, perché la loro catena di montaggio ha un fine più alto.
Costruire, sempre e comunque costruire.
Scavare e abbattere finché tutto non li schiaccia per diventare, poco a poco, parte stessa dei muri di terra rossa.
Passano gli anni, i secoli, i millenni.
Ci ritroviamo ora fra antri angusti e palazzi che si ergono su fondamenta fatte di ossa e sangue: ci ritroviamo catapultati da Beksinski in una leggenda dell’orrore, sperduta nella sabbia.
Ciò che lui ci mostra è il mondo di una mente senza speranza: la sua.
Una mente che è rimasta in coma dopo un serio incidente, che vomita nella pittura l’inferno che ha vissuto.
Colori di gelo, come la sua fredda campagna polacca, di vene e di luce aliena.
Ciò che ci mostra è la società di Xue Jiye arrivata al declino. Una società dove i palazzi sono fatti di quegli stessi uomini formica i quali, dopo tutti questi millenni, sostengono ancora le strutture che stavano costruendo, perfino dopo la morte.
I volti sparsi nel nulla sono mutilati, senza respiro.
Beksinski ci mostra la desolazione di ciò che non è più un uomo. Un uomo che si è annullato così tanto, che nel momento dell’apocalisse si ritrova a regredire a una forma ancora più ancestrale delle scimmie, una forma più simile a uno xenomorfo che a una figura terrestre.
Sono guardiani del nulla, reduci da un mondo fondato sulla massa, ben lontani dal ritrovare una qualche individualità.
L’horror vacui è un elemento dominante nelle sue immagini che rinfaccia a chi respira ancora la sublime colpa di questo impero di edifici.
La fame, la siccità, e la mente sprecata di quelli che erano uomini aleggiano come delle anime in pena alla ricerca di qualcuno che le salvi.
Beksinski ci mostra l’alba di un mondo senza luce, dettato dagli ultimi spiragli dell’elettricità, per entrare in una nuova era: l’era della fine della vita sulla Terra.
Nell’osservare i formicai ancora vivi di Xue Jiye, e poi le ragnatele di scheletri di Beksinski, ci domandiamo cosa abbia spinto tanto in là il mondo o meglio
“Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha spaccato il cranio e ha mangiato i loro cervelli e la loro immaginazione?”
La risposta è nell'”Urlo” di Allen Ginsberg:
“Moloch nel quale sediamo solitari, Il Moloch solitudine, sporco e bruttezza
Moloch il grande giudicatore di uomini!
Moloch il carcere incomprensibile! Moloch prigione senz’anima ossa in croce e Congresso di dolori!
Moloch i cui edifici sono sentenze!
Moloch la vasta pietra della guerra!
Moloch.”
Un luogo dove ci si nutre di sofferenza, Dove viene evocato il decadimento del corpo, la fragilità della carne e al contempo, nonostante tutto, la continua lotta a non rimanere schiacciati dalle proprie creazioni, la lotta alla sopravvivenza.
Se volete approfondire l’arte di questi due pittori, vi lascio il link per saperne di più su Xue Jiye, il link per acquistare il libro sulle opere di Beksinski e il link per acquistare il libro “Urlo e Kaddish” di Allen Ginsberg!
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